giovedì 6 dicembre 2012

Jolanda Buccella



Jolanda Buccella nasce a Oliveto Citra (SA) il 28 giugno del 1980 dopo aver frequentato il liceo linguistico di Campagna (SA) scopre la sua passione per la scrittura e la pittura. Attualmente vive a Milano per motivi di lavoro, ha una famiglia numerosa che adora ma lei è single per scelta degli altri, è un’accanita lettrice di romanzi latino americani. Dipinge quadri astratti per sfogare tutte le sue emozioni negative e nel tempo libero ama cucinare i piatti della sua terra, andare al cinema e seguire il calcio, essendo una tifosa sfegatata del Milan. Fortuna, il buco delle vite edito da Ciesse edizioni è il suo primo romanzo, con il quale spera di regalare ai lettori una parte delle emozioni che ha ricevuto lei scrivendolo.

Jolanda, è qui per raccontarci qualcosa del suo libro:

" Fortuna è una donna dal passato difficile, anzi dai passati difficili, perché a differenza degli altri si può affermare con certezza che lei abbia vissuto tre vite completamente diverse l’una dalle altre. La sua prima vita iniziò un lontano giugno degli anni 50’ in uno sperduto paesino del profondo sud dell’Italia. Allora si chiamava J. Rizzutelli aveva i capelli rossi come l’inferno e un bel buco sulla schiena che la sua famiglia, per ignoranza, aveva soprannominato il buco della vita. Sin dai suoi primi mesi di vita la piccola J. fu costretta a combattere contro i pregiudizi della gente che la considerava una creatura figlia del diavolo e l’ostilità di sua madre Anita, una bellissima ex ballerina che non riusciva ad accettare l’idea che il suo corpo dalle linee perfette avesse partorito una figlia storpia. L’infanzia della bambina sarebbe stata un calvario se al suo fianco non avesse avuto Umberta Prima Rizzutelli, l’amatissima nonna paterna, una donna vivace e spregiudicata che le faceva vedere il mondo alla sua portata e la incoraggiava a sfidare i suoi limiti fisici. Gli anni felici passarono velocemente e all’improvviso la signora Rizzutelli fu colpita da un male sconosciuto che in pochi mesi la condusse alla morte. La scomparsa della nonna fece crollare il mondo di certezze della piccola J. che si rivelò un essere completamente fragile e indifeso, al cospetto di un mondo che vedeva soltanto la sua diversità. La ragazzina trascorse tutta l’adolescenza facendosi del male prima con dei digiuni spietati e poi con delle abbuffate senza controllo. Soltanto la fine delle scuole superiori e il desiderio di frequentare l’Università per diventare giornalista, le diedero la forza per dare un po’ di tregua al suo corpo sempre più provato. Ma il destino continuò ad accanirsi in modo spietato con lei, dopo aver superato brillantemente venti esami alla facoltà di Scienze Politiche la sua carriera universitaria s’interruppe bruscamente. La delusione fu talmente forte che da quel momento in poi J. decise di chiudersi per sempre in casa. Ormai era completamente rassegnata quando, un giorno, la telefonata di una persona che era stata molto importante nella sua prima infanzia, la spinse a reagire e a mettere fine alla sua reclusione. Doveva dare un taglio netto col passato perciò decise di fuggire di casa, mettendo così fine alla sua prima vita. Arrivò a Roma dopo un lungo viaggio in treno, felice e completamente sicura che nella Capitale avrebbe finalmente trovato quel briciolo di felicità che le spettava di diritto. Affittò una graziosa cameretta in una pensione e cominciò subito a cercare un lavoro, trascorse giornate intere su e giù per le strade della città per presentarsi puntuale ai colloqui che fissava tramite telefono, ma a qualcuno bastava semplicemente vederla muoversi per sbatterle la porta in faccia. Dopo qualche giorno i pochi risparmi che aveva finirono, così fu costretta a lasciare la pensione e a trascorrere la sua prima notte per strada. Su una panchina poco lontano dalla stazione Termini, incontrò un vecchio barbone muto che le offrì il suo cappotto per proteggersi dal freddo della notte e la mattina dopo lo ritrovò ancora accanto a sé. L’uomo, che probabilmente aveva intuito la sua situazione disperata, la pregò di seguirlo e così la portò a “casa sua” un vecchio edificio abbandonato su una delle tante rive del fiume Tevere. Il vecchio edificio era abitato da un gruppo di barboni che all’inizio non accettò di buon grado la sua presenza. Erano tutti ostili nei suoi confronti e le facevano dei dispetti che avrebbero fatto perdere la pazienza a chiunque, ma J. cercò di essere forte e sopportare tutto, perché non aveva altra scelta se non quella di trascorrere un lungo e freddo inverno, gettata per strada come tanti altri poveri disgraziati. La tenacia della donna alla fine fu premiata, i barboni cominciarono ad avere fiducia in lei e a considerarla parte della loro famiglia, soprannominandola Piccoletta perché era la più giovane del gruppo. La vita da barbona era dura e spietata, era una vita che non lasciava scampo e che faceva perdere il senso di tutto, di se stessi, del mondo intorno e soprattutto del tempo che trascorreva. A un certo punto Piccoletta cominciò a non ricordare più quanto tempo fosse passato, da quando si chiamava ancora J. e faceva parte della civiltà. Quanti inverni aveva trascorso lottando tenacemente contro il freddo e la fame? Quanti Natali non aveva più festeggiato? Era di nuovo la vigilia di Natale, l’ennesima in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Una vigilia della quale Piccoletta avrebbe portato per sempre segni indelebili nel corpo e nell’anima, perché proprio quella notte il suo protettore si trasformò nel suo peggior carnefice, abusando senza alcun ritegno di lei. Fu un colpo straziante per la donna perché sin dal primo momento che lo aveva visto, si era sempre fidata ciecamente di Benny, lo aveva considerato come quel padre dolce e premuroso che la piccola J. non aveva mai avuto. Era triste, delusa, mortificata e l’unica via d’uscita a tutto quel male sembrava essere soltanto la morte. Provò diverse volte a lasciarsi trasportare dalle acque torbide del fiume, ma il suo istinto di sopravvivenza la fermò sempre in tempo. Probabilmente non era ancora tutto finito… Infatti una domenica mattina, accompagnando la sua amica zingara Juana in giro per le strade di Roma, incontrò un uomo di colore vestito in modo eccentrico che la salvò da una brutta caduta sui sanpietrini di Piazza San Pietro. Piccoletta rimase profondamente turbata dallo sguardo profondo dello sconosciuto e quando poi se ne andò, scomparendo tra la folla di pellegrini che aveva appena assistito all’Angelus del Papa, provò uno strano dispiacere al pensiero che non lo avrebbe rivisto mai più. Ma nella vita non bisogna mai dare niente per scontato. Così il caso volle che, una volta la donna capitasse proprio nella strada in cui un caro amico dell’affascinante sconosciuto aveva un ristorante. All’inizio fu piuttosto sgarbata nei suoi confronti, ma quando l’uomo la invitò a bere qualcosa di caldo, lei accettò di buon grado. Da quel momento in poi tra Nadir e Piccoletta cominciò a nascere un’amicizia sempre più profonda, anche se entrambi non trovavano mai la forza per raccontarsi dei loro rispettivi dolorosi passati. Piccoletta non riusciva a parlare del rapporto difficile con sua madre, di come era arrivata a ridursi a fare la barbona e tanto meno della violenza di Benny, Nadir invece non riusciva a raccontarle del Ruanda, del genocidio dei tutsi e di tutti gli anni che aveva trascorso in carcere con l’accusa di essere un oppositore del regime del presidente Habyarimana. Soltanto quando i due troveranno il coraggio per aprirsi completamente, il loro rapporto subirà un’evoluzione radicale ma… il resto della storia non ve lo racconto. Dovete scoprire da soli leggendo il romanzo che cosa ne sarà di Piccoletta e perché il suo nome definitivo sarà Fortuna! Una storia ricca di emozioni forti, una saga familiare, un grande amore diverso tra una donna bianca affetta da un grave handicap e un uomo di colore che ama vestiti eccentrici, la storia dimenticata del genocidio dei tutsi. Fortuna, il buco delle vite ha tutti gli ingredienti per tenere incollato il lettore fino all’ultima sorprendente pagina! "

Dopo avermi incuriosita con questo racconto, Jolanda mi spiega anche quali sono le motivazioni che l'anno spinta a scrivere questo affascinante romanzo:

" Oriana Fallaci diceva che un libro quando viene concesso al pubblico poi non appartiene più a chi lo ha scritto ma diventa tutto ciò che i lettori vogliono. Quando ho cominciato a scrivere Fortuna, il buco delle vite ero consapevole che se fosse stato pubblicato poi avrei dovuto accettare i commenti dei lettori, anche quelli più crudeli e negativi. Molti penseranno che sia un romanzo autobiografico, non è un romanzo autobiografico anche se nella prima parte della storia la protagonista ha per nome l'iniziale del mio, perciò è inutile tentare di riconoscere in alcuni personaggi tratti e caratteristiche di persone realmente esistenti. Fortuna è innanzitutto un romanzo che vuole denunciare il pregiudizio, quel cancro maligno e incurabile che vive nel cuore di molti e che spesso rende un inferno la vita di chi è concepito diverso. J. nasce con una malformazione alla colonna vertebrale e perciò a volte dovrà fare i conti con commenti sgradevoli appena sussurrati e sguardi intrisi di compassione, durante la sua giovinezza avrà modo di vivere per un lungo periodo per le strade della capitale con un gruppo di barboni e dimenticherà la sua imperfezione fisica soltanto quando vedrà riflessa la sua immagine negli occhi innamorati di Nadir, un uomo di colore. Un uomo che ha una cultura estremamente diversa dalla sua. Un medico pediatra di una piccola e invisibile regione dell’Africa, il Ruanda il paese delle mille colline, un paese insanguinato da un efferato genocidio che per quattro lunghissimi mesi dall''aprile al luglio del 1994 non fa rumore, che non interessa al mondo dei potenti e dei suoi media. Ecco che cos’è Fortuna, un microcosmo popolato da diversi che vengono messi ai margini della società semplicemente perché si muovono senza grazia, perché hanno un odore sgradevole o un colore di pelle scuro ed è più facile considerarli brutti, sporchi e cattivi. Tutto ciò che ai nostri occhi appare diverso ci spaventa, lo allontaniamo, forse pagheremmo per non vederlo perché ci darebbe la banale illusione di vivere in un mondo perfetto. Non pensiamo mai che forse sono i pregiudizi che ci trasciniamo dietro ogni giorno ad essere corpi imperfetti e che se ogni tanto provassimo a liberarcene, magari proveremmo un piacevole e inesplorato senso di libertà."

Nessun commento:

Posta un commento